Pietro Sollazzo

La follia, la cui concezione è cambiata continuamente nel corso delle epoche storiche, è sempre stata oggetto di grande incomprensione. Nel Medioevo il folle era un “posseduto”, nell’Ottocento una “macchina rotta” ed ora la sua figura, l’immagine data dalla cultura di oggi, è quella del “malato”. 

Con il passare del tempo, quindi, nascono varie rappresentazioni e interpretazioni che si cementano e si smantellano: dalle filosofie rinascimentali alla filmografia degli ultimi decenni si rivede il tentativo di inquadrare con lucidità le cause, i motivi, le origini delle azioni folli. D’altra parte, gli studi psichiatrici, sin dalla loro nascita nel Novecento, hanno ricondotto la follia a stati psichici alterati e soprattutto psicotici. Eppure ancora oggi il termine, dopo decenni di studi comportamentali, è oggetto di stigmatizzazione, di etichettamento e di confusione. 

Per questo è bene scavare in fondo e chiedersi: cos’è la follia?

Ebbene, essa potrebbe essere l’attimo, il fuggire via della coscienza morale per pochi istanti. Ma anche un modo d’essere, che è fuori dagli schemi e stravagante, tipico degli artisti. Oppure la malattia, la psicosi e la schizofrenia, cioè quando si manifesta la scissione, il distacco completo, o quasi, dalla realtà. Tuttavia è probabilmente la  società stessa, che, nei suoi rigidi schemi, crea i “folli”, coloro i quali hanno comportamenti anomali e inadeguati. Questo perché non si riescono a riconoscere i veri motivi che stanno dietro un agire folle. Il conseguente disadattamento nei rapporti sociali provoca l’alienazione dell’individuo, la chiusura nella sfera intima, e nella solitudine si radicano ancora di più convinzioni pericolose, maniacali e talvolta autodistruttive. Insomma, un circolo infinito di illusioni degne della storia del “Don Chisciotte”, il cavaliere che ha perso il senno e che pensa la realtà come una narrazione fantastica. La follia schizofrenica del personaggio di Cervantes rivive nella filmografia di oggi, che ci regala immagini di grande significato. In “American Psycho” il punto di vista del protagonista ci fa immedesimare in una persona incapace di ogni rapporto affettivo, vero e, nell’assurdità delle vicende, l’atteggiamento psicotico e perverso si concretizza: nasce l’assassino. Ancora più strano è il fatto che la sua figura è quella di un uomo qualunque, che vive di scambi tra colleghi, ma solo nell’apparenza. Così esso è un esempio di personalità che, se lasciate libere, sono fonte di pericolo per se stesse e per gli altri. L’esclusione forzata di esse dal vivere in società all’interno di ospedali psichiatrici ha portato spesso alla depersonalizzazione del malato, zittito nei suoi modi e nei suoi schemi. E’ comprensibile il non riconoscere subito che la follia è qualcosa di puramente umano, ma è ciò che la rende lontana, creando l’etichetta del folle come di un emarginato, incapace di intendere e di volere. 

“La pazzia”- scrive Pirandello – “è la vera normalità”: tutti abbiamo un lato oscuro, folle ed esso alberga sotto i nostri pensieri. Quelle condizioni che sono proprie del malato vivono dentro di noi, tutti: mentre i “sani” sanno mascherare gli impulsi agli occhi della società, sopprimendo il loro lato bestiale, i “malati” seguono esclusivamente i loro schemi, convinzioni assurde, come se non esistessero norme, regole e vincoli. 

E se seguire quelle norme fosse la vera follia? 

Lo racconta Vitangelo Moscarda in “Uno, Nessuno, Centomila” testimoniando, nella sua ossessione per la decostruzione della personalità,  l’insofferenza per le contraddizioni della società che crea centomila immagini della stessa persona. E’ quindi folle sopportare questa condizione, piuttosto che togliere la maschera e diventare nessuno, il fluido inconsistente che si cela dietro, cioè la nostra vera essenza.

A mio parere è affascinante pensare che la follia sia solo un altro modo di pensare, come credevano i rinascimentali, abbracciando il relativismo di punti di vista, di cui parla anche Pirandello. 

Tuttavia, sono convinto che dietro ad atteggiamenti folli si nasconda soprattutto una sostanziale perdita della capacità di giudizio: gli stessi effetti dell’alcol, della droga, dell’amore come passione portata all’estremo fanno uscire il lato irrazionale e bestiale dell’uomo. La condizione di follia nasce quindi da una mancanza del senso di responsabilità, un offuscamento della percezione delle proprie azioni. La pazzia è anche un istante: è lo scappare al controllo della mente di impulsi che ribollono. Le emozioni come la tristezza, la rabbia o la paura possono liberare questi istinti che ci fanno compiere azioni senza un apparente senso. Nella depressione la tristezza assoluta pervade la mente della persona e la porta a compiere gesti estremi e folli come il suicidio. Un trauma, invece, può risvegliare inconsciamente impulsi profondi in qualsiasi momento. Questo è emblematico per capire l’infinita vulnerabilità di alcuni soggetti  che sono spesso etichettati come folli, cioè come degli emarginati. Per questo bisognerebbe mostrare più tolleranza nei confronti di questi individui e cercare in tutti i modi di reintegrarli nella vita quotidiana seguendo un percorso di crescita e di rinascita, non all’interno di strutture di contenimento che cancellano le individualità, ma cercando di indirizzare la loro mente verso orizzonti sereni. Se è difficile per noi accettare queste diversità, pensiamo, invece, alle volte in cui ci siamo fatti sopraffare dalle emozioni, dal sentimento, ma soprattutto tutte quelle occasioni in cui abbiamo fatto del male alle persone senza valido motivo; pensiamo agli omicidi, ai delitti e ai reati che commettono i “sani” e non i “malati”. E’ forse perché abbiamo tutti dentro un altro mondo, fuori dagli schemi che riposa in silenzio, ma pronto ad uscire.