Alberto Davoli

Il pazzo, il folle. Nella mia testa è rappresentato (istintivamente) come un signore sulla sessantina, con una lunga barba grigia, una bottiglia in mano mentre urla per strada. Ma questa descrizione, che si avvicina maggiormente a quella di un alcolizzato, è piena di pregiudizi e stereotipi. Allora per combatterli forse è meglio definire con chiarezza cosa intendiamo quando diciamo “folle”. Partiamo col dire che questo termine potrebbe non essere quello migliore. Noi chiamiamo folle anche una persona particolarmente spericolata, coraggiosa (o stupida), che fa delle cose che noi non ci sogneremo neanche. Per esempio, coloro che sciano fuori pista per me sono dei folli. Quel tipo di folle di cui noi parliamo, invece, è una persona che soffre di una malattia mentale. È una condizione patologica, che può causare problemi nel comportamento, difficoltà nel relazionarsi e a livello cognitivo. È anche complicato studiarla, perché spesso non è razionale, non è prevedibile. Ed è anche per questo motivo che nel corso della storia l’uomo ha cercato metodi sempre differenti per affrontare le malattie mentali, da quelli più “crudeli” (dal nostro punto di vista moderno) a quelli più rispettosi nel confronto della persona. Siamo passati dal Medioevo, quando i “pazzi” (qualsiasi individuo ritenuto violento, pericoloso o fonte di disordine) venivano rinchiusi, isolati, allontanati dalla società. Poi siamo passati dal 1800, dove la psichiatria definì la follia come malattia mentale; e i folli, ancora considerati pericolosi, venivano rinchiusi in manicomio. Lo step successivo arriva con la psicoanalisi, per cui la follia è causata da fattori psicologici (e non da cause organiche) e si può curare anche tramite l’uso degli psicofarmaci. Iniziano di conseguenza le prime cure extra manicomiali. Negli anni ‘60 del ventesimo secolo invece l’antipsichiatria nega l’esistenza della malattia mentale, il folle è solo una vittima dei conflitti di classe, e si arriva alla chiusura dei manicomi. E oggi? In Italia, per legge, ogni cura deve avvenire nel rispetto dell’individuo e solo con il suo consenso, con solo poche eccezioni nei casi più gravi. Inoltre i soggetti affetti di malattie mentali sono anche tutelati in ambito giuridico, se non sono in grado di intendere e volere. Importante notare che statisticamente i malati mentali non commettono più reati di persone sane (proporzionalmente).

Abbiamo visto quindi che, almeno a livello legislativo, queste persone sono tutelate e rispettate. La domanda che personalmente mi preme di più è come dobbiamo noi – non medici – comportarci nei loro confronti? Come dobbiamo immaginarli? Mi sto rendendo conto che ho già fatto una distinzione tra noi (sani) e loro (malati), e forse non è un buon punto da cui partire. Magari dovremmo considerarci tutti uguali. Allo stesso tempo però non dobbiamo neanche negare la realtà, cioè che alcuni hanno più difficoltà di altri. Tornando alla domanda “come dobbiamo comportarci”, credo che la risposta più semplice e idealista sia: “dobbiamo includerli nella società (ma anche nel nostro gruppo di amici) al pari di tutti”. La vita mi sta dimostrando però come le risposte semplici non esistano, e questa non fa eccezione. Perché includere qualcuno che soffre di malattie mentali, può essere più difficile di quello che si pensa. Prendiamo ad esempio uno dei disturbi psichici più “leggeri”: il ritardo mentale. Conosco una ragazza, mia coetanea, che ne soffre (non so dire a che grado), aggravato poi da un importante trauma familiare. Si è aggiunta al nostro gruppo parrocchiale un paio di anni fa, ma non si è ancora integrata completamente. La resistenza maggiore, credo, sono alcuni suoi comportamenti e atteggiamenti “fuori luogo”. Una volta per esempio, una coppia (del nostro gruppo) si stava abbracciando, era un momento forse delicato, e quindi piuttosto intimo. Ad un certo punto questa ragazza, si alza e va ad unirsi nell’abbraccio. Forse raccontato può anche sembrare divertente, ma vissuto non è piacevole, è percepito quasi come una mancanza di rispetto. Ma a causa del disturbo mentale lei non lo capisce. Il concetto che vorrei passare è che la responsabilità è senza dubbio nostra, siamo noi che dobbiamo sforzarci di integrarli, ma non è semplice. Non siamo perfetti, per il semplice fatto di essere umani, e questo rende le cose ancora più complicate.