Come anticipato, ecco la seconda ed ultima metà dell’intervista di un gruppo di ragazzi di 3 I ai docenti di Filosofia e Biologia e alla nostra Preside, realizzata al fine di poter comparare le due pestilenze più note: la peste nera del XIV secolo e il COVID-19.
Alberto Magnani, docente di Biologia e Scienze della Terra
Le misure anti Covid attuate in Italia sono state sufficienti?
E’ complesso e a volte rischioso fare paragoni sulle misure sanitarie adottate dai diversi stati sovrani. Posso dire che diversi studi hanno dimostrato che mascherine e distanziamento sociale sono stati necessari ed efficaci per rallentare il contagio. Ma la svolta è arrivata quando la stragrande maggioranza della popolazione si è trovata ad avere un sistema immunitario che “conosceva già” il virus. E per fare questo ci sono due modi: contagiarsi oppure vaccinarsi.
Dovremmo ancora portare mascherine o siamo “fuori pericolo”?
Difficile prevederlo. Saremmo costretti se si selezionasse una nuova variante che sfugge nuovamente al sistema immunitario o da futuri altri virus, diversi da SARS-CoV-2.
Anzi, direi che prima o poi, nel lungo periodo, certamente arriverà una nuova pandemia che ci costringerà a prendere misure simili! Sono eventi che in natura sono sempre accaduti e sempre accadranno.
Elisabetta Casu, docente di Storia e Filosofia
In che modo i grandi filosofi del passato hanno interpretato le epidemie?
Cari ragazzi, come ben sapete la filosofia è anche ricerca di senso.
Nei momenti più bui della pandemia eravamo immersi nel non-senso. La sensazione comune era di annaspare in una grande pozza di fango, al buio, senza poterci tendere una mano reciprocamente. Lo sgomento e la paura rendevano difficile una riflessione filosofica obiettiva. Nonostante tutto, in Dad insieme ai vostri compagni, la filosofia è diventata spesso un appiglio.
Pensando a Schopenhauer direi che è prevalsa la via etica come approccio verso il problema. Pur terrorizzati e nell’impotenza di fronte al dolore, sapevamo almeno che questo era universale, nessuna regione della terra, ricca o povera che fosse era esclusa dal dilagare della pandemia. Tutta l’umanità era in ginocchio di fronte alla morte. Da secoli forse non emergeva quella compassione universale in un mondo tecnicamente globalizzato.
Compassione in Schopenhauer significa patire- con, quindi soffrire ed immedesimarsi nel dolore dell’ altro, degli altri. In quei giorni tragici mi colpì in particolare la riflessione di un ragazzo di quinta, il quale mi disse:”Prof, per Schopenhauer la vita è come un pendolo che oscilla tra dolore e noia, passando per piaceri effimeri la cui soddisfazione poi riconduce alla noia! Giusto?” E continuò, e ricordo che lo disse quasi piangendo: “Prof in questi giorni terribili ho la profonda sensazione che quel pendolo si sia come fermato”. Mi colpì molto quella sua riflessione, l’ immobilità esistenziale addirittura, in un dolore che immobilizzava corpo e anima.
Forse Kierkegaard ha dato a noi la possibilità di viverlo dal punto di vista della fede. Se per Schopenhauer Dio non esiste perché sarebbe sciocco pensare che abbia creato un mondo attraversato dal non senso e dal dolore, Kierkegaard apre invece l’esistenza alla possibilità della fede. Dio esiste, ma a che prezzo! Come collocare la provvidenza divina in una pandemia mondiale? È un salto nel buio l’affidarsi e pregare a Dio, lo è stato in quei momenti. È giusto un Dio che permette ad un virus di provocare la morte contemporanea di milioni di vite umane? È giusto morire da soli senza poter dare e ricevere l’ultimo saluto?
In questo Kierkegaard è venuto a noi incontro. La fede è un paradosso, una scommessa come diceva Pascal. Si è soli di fronte al mistero di Dio, il quale può chiederci qualsiasi cosa anche di non giusto eticamente. Eravamo forse come Abramo di fronte alla richiesta ingiusta di Dio di sacrificare l’unico figlio Isacco? E perché questa richiesta? Abramo non si pose questa domanda, sottolinea Kierkegaard, sapeva già che non avrebbe avuto una risposta sul piano umano, in questo ambito eticamente rischiava invece di macchiarsi del delitto più grave, l’infanticidio. Eppure Abramo salì sul colle biblico Moriyyah, lo stesso dove Salomone aveva edificato il suo tempio, pronto ad uccidere il proprio figlio in nome della sua fedeltà a Dio. Chi è credente, con tutti i dubbi relativi al credere, nel tempo terribile della pandemia ha sentito quella sospensione, quel buio del salto nella fede. Anche in questo caso abbiamo sperato che Dio, attraverso i suoi angeli, fermasse la pandemia ed eravamo tutti anche noi sul colle biblico con il terrore di essere sacrificati, senza sapere però in nome di chi e perché.
Oggi possiamo forse tirare un sospiro di sollievo, ma rimane il dolore di chi è andato via senza quella pietas dovuta a chi lascia la vita.
Rimane aperta ora quelle domande di senso che appartengono alla filosofia: ha avuto un senso tale dolore? Abbiamo imparato come umanità la preziosità dell’altro in uno sguardo, una carezza ed un abbraccio? Siamo diventati persone migliori sul piano dell’empatia e della compassione?
Ecco, l’utilità della riflessione filosofica, durante la pandemia e dopo, può essere nella rielaborazione di questa immane tragedia del nostro tempo per costruirvi almeno un piccolo spazio di senso.
Mariagrazia Braglia, Preside
Parlando di “diritto alla disconnessione”, cosa ne pensa delle normative al riguardo?
Credo che normare il diritto alla disconnessione, come è stato fatto nell’ultimo contratto collettivo nazionale, sia una ormai una necessità. La connessione in rete è uno strumento molto utile: l’accesso ai social ci permette di rimanere in contatto con persone a noi care e di poter scambiare opinioni, o informazioni, in tempo reale o quasi. Dall’altra parte questa connessione continua è anche molto estenuante, perché non ci da mai un attimo di tregua. E’ quindi giusto normare il diritto alla disconnessione se si parla di ambiente di lavoro. Mi sembra corretto che un lavoratore inizi a lavorare ad un certo orario al mattino per poi interrompere ad un certo orario di pomeriggio e non debba sentirsi in obbligo di dare la sua disponibilità al di fuori del proprio orario di lavoro, ad esempio durante il fine settimana. D’altro canto, credo che sempre meno sarà possibile in tutte le attività lavorative, scuola compresa, pensare ad un orario di lavoro fisso. Il modo di lavorare che abbiamo, come anche la tipologia di attività che dobbiamo svolgere, richiedono oggigiorno un minimo di flessibilità, una necessità che va oltre il cartellino da timbrare, un sistema che noi qui abbiamo, per esempio, per il personale ATA. L’ordine dell’organizzazione del lavoro non è più quella degli anni ‘60, del “boom economico”, quindi va regolamentato proprio perché è cambiato il modo di lavorare e bisogna mettere dei paletti affinchè si tuteli il tempo che va dedicato a se stessi e ai propri interessi personali.
Queste norme hanno tutelato al meglio la salute degli studenti in didattica a distanza?
Domanda interessante. La didattica a distanza nasce per tutelare la salute degli studenti che erano impossibilitati a recarsi a scuola per motivi sanitari, in quanto la presenza in aula avrebbero rappresentato un grosso rischio per la salute di tutti: dei ragazzi, ma anche degli adulti e delle persone più a rischio che vivevano con i ragazzi, gli anziani. E’ stata una necessità che io ritengo di condividere. Sicuramente nel 2019/2020 questa necessità era evidente a tutti e non è stata messa in discussione, il problema è sorto l’anno scolastico successivo, quando ci siamo iniziati a chiedere perché nel corso del tempo che è passato dallo scoppio dell’epidemia al settembre 2020 non si fosse creata nelle scuole una rete di protezione, impianti di ricircolo dell’aria e via dicendo, che potessero comunque garantire il rientro in presenza degli studenti. Col senno di poi, in effetti si potevano prevedere interventi diversi, ma se vogliamo essere realisti e considerare lo stato degli edifici scolastici sarebbe stato un lavoro che avrebbe richiesto tempi lunghissimi, quindi non compatibile con con i tempi di ripresa dell’attività scolastica. Alla fine si è scelto di tutelare la salute pubblica, a mio avviso forse sottovalutando i rischi della salute psicologica di una generazione in crescita, una fascia di popolazione che pesantemente ha risentito di questa privazione di libertà personale, con gli esiti di questo problema che sono evidenti a tutti noi al giorno d’oggi.
Io mi auguro che, se nel futuro dovesse ricapitare una cosa del genere, saremmo capaci di gestire le cose diversamente. Vedo, però, che dal punto di vista degli edifici scolastici poco si fa e poco si è fatto: i numeri di alunni nelle classi sono molto alti, dunque l’affollamento rimane una costante. Il comfort dal punto di vista dell’umidità e della temperatura nelle aule non è buono, ma per risolvere questi problemi ci vogliono interventi strutturali molto costosi e non so se e quando sarà possibile farli.