Lucia Tondelli
Con Pirandello cogliamo la crisi di una società messa in discussione dalle teorie sulla psicanalisi di Freud, che pongono l’attenzione sulla parte irrazionale della mente umana, e dalla teoria della relatività di Einstein, secondo cui la realtà è relativa e non può più essere descritta in base a schemi fissi. Tutto ciò porta a una concezione relativistica del mondo, ognuno ne ha la sua percezione e da ciò deriva una grande incomunicabilità tra gli uomini, che si sentono soli. In questo contesto crollano i valori tradizionali e l’io si ritrova a non sapere più che ruolo deve sostenere. L’uomo perde la sua identità ed è costretto a svolgere un ruolo affidatogli dalla società che lo circonda, ma esso si rivela essere una maschera, una versione fittizia di sé. In questa trappola, egli si sente incompreso e per evadere è costretto a rifugiarsi nella follia e nell’immaginazione o a chiudersi in se stesso, estraniandosi dalla realtà che lo circonda per vivere come “forestiere della vita”. Tutto ciò è mostrato da Pirandello in “Il fu Mattia Pascal”, in cui narra di un uomo, intrappolato nel suo lavoro e nella famiglia, che grazie a un colpo di fortuna riesce a liberarsi da questa identità opprimente. In un primo momento è felice, si sente libero di poter fare ogni cosa, ma presto si rende conto che senza essere nessuno non può fare niente. Anche la nuova identità che si è costruito è una trappola e non può fare altro che tornare quello che era Mattia Pascal. Diversamente da questo romanzo, in “Uno, nessuno e centomila” si trova una diversa conclusione delle vicende. Infatti, Vitangelo Moscarda, il protagonista, dopo aver distrutto la sua identità e le centomila immagini che gli altri avevano di lui, decide di rimanere nessuno, per poter svegliarsi ogni mattina e riconoscersi ogni attimo in un elemento diverso della natura, senza cristallizzarsi in una forma precisa. Questo rifiuto dell’identità prende una connotazione positiva in quanto rappresenta l’abbandonarsi all’incessante fluire della vita. Un altro espediente caratterizzante la produzione letteraria di Pirandello, è l’utilizzo dell’umorismo che vuole portare il lettore a riflettere sul motivo delle azioni dell’individuo. Molte volte, infatti, se si guarda a un fatto, come quando Belluca (nella novella “Un treno ha fischiato”) impazzisce e si ribella al suo capo, sembra qualcosa di inspiegabile, in realtà, se si analizzano le cause, risulta comprensibile. Pirandello vuole spostare l’attenzione dalla comicità, cioè “l’avvertimento del contrario”, all’umorismo, ossia “il sentimento del contrario”. Per l’autore lo straniamento non è più quello “verghiano” di far concepire strano qualcosa di normale, ma, al contrario, vuole fare sembrare normale qualcosa che ci appare strano. Il rifiuto dell’identità di Mattia Pascal, la scelta di essere nessuno di Vitangelo Moscarda, il mutismo e l’alienazione di Serafino Gubbio, la follia di Belluca, la teofania di Ciaula sono tutti modi che Pirandello usa per mostrarci come la vita sia un enorme “pupazzata”, uno spettacolo di marionette, dove ognuno di noi è un burattino chiamato a svolgere un ruolo imposto dalla società. Tutti questi personaggi, però, in modi diversi riescono a distaccarsi dalla realtà in cui sono immersi, a guardarla da fuori, a fuggire da quella maschera, portandoci a riflettere su chi è ognuno di noi. Leggendo Pirandello siamo portati a chiederci chi siamo, se indossiamo delle maschere, quali di esse siano false e quali, invece, rispondano a, effettivamente, noi. È la società a costruirci la nostra identità o siamo noi i padroni della nostra vita? Perché ci comportiamo in determinati modi e da dove scaturiscono certi atteggiamenti? Come gli altri influenzano la nostra percezione di noi stessi? Tutto il pensiero “pirandelliano” è attualizzabile ai nostri giorni e può offrire profondi spunti di riflessione a ognuno di noi.