Rebecca Merigo

Ulisse non è certamente un personaggio creato da Dante, ma è nel XXVI canto che diventa
protagonista di un dialogo che ci ricorda come l’ardore e la forza dell’uomo, talvolta, non si
possano spegnere.

Ulisse viene ritratto nell’ottavo girone insieme ai fraudolenti e, la sua pena viene assegnata per contrappasso. Lui, insieme a Diomede, è avvolto tra le fiamme, ed essi sono uniti perché condivideranno la pena come hanno condiviso i loro sogni di gloria.
Entrambi  sono accusati di aver ideato l’inganno del cavallo di Troia e di aver utilizzato la loro intelligenza unicamente per scopi personali.
Ulisse è stato un uomo che ha visto molte terre, conosciuto molte persone, ma a cui tutto questo non bastava. Desiderava andare oltre. Di fatto si tratta dello stesso desiderio espresso da Dante: anche lui sta facendo un viaggio che lo porta a scoprire la vera natura umana, dal male al bene supremo.

Perché Ulisse è all’inferno? Ulisse è già presentato come un uomo dalle tante sfaccettature dalla cultura classica: da un lato un re buono e saggio che compie un lungo viaggio per tornare a casa, dall’altro un uomo in grado di ingannare, utilizzare l’astuzia a suo favore, illudere le figure femminili che incontra. Dante parla con Ulisse chiedendogli del suo ultimo viaggio: il desiderio più profondo di Ulisse infatti, non è tanto quello di tornare a casa, ma di continuare il viaggio. È disposto per questo a lasciare la moglie, il figlio, la casa, gli affetti, pur di rincorrere questo suo sogno ultimo, per seguire questa sete di conoscenza per la quale non accetta alcun limite. La casa diventa,quindi, una gabbia, le persone vincoli, tutto diventa insopportabile, tutto viene visto come un ostacolo alla grandezza alla quale lui stesso si sente destinato.

Quella di Ulisse sembra alla fine una fuga verso nuove terre, nuove possibilità, nuove circostanze.
Per anni quindi Ulisse e i suoi compagni girano il Mediterraneo, finchè non sopraggiunge la vecchiaia. E se per Dante la vecchiaia dovrebbe essere quell’età legata alla saggezza, alla maturità, all’osservazione di quello che di buono si è compiuto nella vita, Ulisse non la accetta e la vede come l’ennesimo limite.
Per questo non si ferma davanti a niente, nemmeno davanti alle Colonne d’Ercole, confine che gli antichi avevano definito quasi in modo sacro. E alla fine si perde.

L’errore di Ulisse (almeno secondo Dante), non è tanto quello di desiderare di scoprire nuove terre, o della spinta all’avventura ma nel modo in cui Ulisse tenta di soddisfarlo. Innanzitutto da solo, con le sue forze e la sua intelligenza (solo con pochi compagni). Il viaggio diventa quindi non “ragionevole” ma “folle”, fuori da ogni misura. Ulisse continua a navigare senza una meta vera e propria che non sia la sua stessa sete di conoscenza. Ulisse è un uomo che viene condannato perché il desiderio che lo spinge oltre le Colonne d’Ercole è spinto dalla sete di rivalsa personale, dall’egoismo, dalla presunzione e non, invece come accade per il viaggio di Dante, dall’umiltà e dall’ascolto. Facendo questo Ulisse si sostituisce quasi a Dio: è lui che decide il proprio destino e addirittura quello dei suoi compagni. L’ultimo viaggio di Ulisse è proprio simbolo di questa volontà: vincere l’ultima sfida con Dio o con il destino così come ne aveva fatte (e vinte) tante altre nel corso della sua vita.

Nel confronto tra Ulisse e Dante, quindi, non viene condannato il viaggio in quanto tale, ma
l’egoismo che ha mosso il primo e viene invece esaltata l’umiltà del secondo. Il viaggio di Dante  non è contro Dio, non è per affermazione del potere dell’uomo di decidere per se stesso, non è, in definitiva fine a se stesso. E se il viaggio è metafora dell’esistenza, sembra chiaro come la vita (e il suo viaggio) non devono essere compiuti per egoismo perché altrimenti l’unica cosa che otterremo è il naufragio. La vita diventa un’avventura nel momento in cui riusciamo a compiere un viaggio assieme agli altri, aperti ai consigli come Dante lo è con Virgilio, aperti alle guide, in ascolto continuo.