Francesca Olivetti

Nella società odierna siamo portati a pensare al narcisista come un individuo egoriferito e vanitoso, con un’ammirazione smodata per se stesso.

Nella realtà dei fatti, però, il disturbo narcisistico della personalità si configura come una problematica ben più complessa e sfaccettata.

In una certa misura, alcuni tratti narcisistici nel comportamento di ognuno possono essere considerati fisiologici, fino a che questi non vanno ad influire sulle relazioni interpersonali dell’individuo.

La patologia prende il suo nome dal mito di Narciso, un bel giovane che rifiuta l’amore della ninfa Eco. Come punizione, è condannato ad innamorarsi della propria immagine riflessa nell’acqua al punto da morire annegato mentre tenta di consumare il suo amore.

Il DSM-5 definisce la patologia come “caratterizzata da un modello pervasivo di grandiosità, necessità di adulazione, e mancanza di empatia”.  

Questa definizione a fine meramente diagnostico è riduttiva e non cattura nella sua totalità le dinamiche in cui sono coinvolti sia chi soffre del disturbo, sia chi vive la realtà del narcisista.

Chi ne soffre sviluppa una vera e propria ossessione per l’immagine di sé che rimanda agli altri: l’autostima del narcisista è per definizione fragile e viene mascherata da un ego smisurato.

I sentimenti che predominano nell’animo del narcisista sono l’invidia e la vergogna: alle sensazioni di inferiorità, vulnerabilità e paura del confronto tenute nascoste nell’intimità della sua consapevolezza corrispondono atteggiamenti di grandiosità e superiorità manifesti. Tipico è anche l’incolmabile e totalizzante senso di vuoto che provano.

Un’altra rilevante caratteristica del narcisista patologico è la mancanza di empatia, capacità fondamentale per instaurare una qualsiasi relazione interpersonale di tipo lavorativo, familiare, platonico o romantico.

Come avviene, quindi, l’approccio del narcisista? Può essere diviso in due fasi: la prima, quella adulatoria, dove il narcisista si presenta come la persona ideale che rispecchia un prototipo socialmente utopico.

In questo periodo iniziale la vittima vive la lusinga in maniera molto accesa, passando persino a livello neurochimico per un bombardamento di ormoni quali ossitocina, adrenalina e dopamina.

Nella seconda fase, si instaura un rapporto di dipendenza unilaterale dalla parte della preda, basato sulle conferme insistenti offerte in forma manipolatoria.

La vittima brilla, quindi, di luce riflessa, come una luna: il narcisista le fa credere che il suo valore dipenda in modo assoluto dal proprio potere ammaliante.

Esattamente a causa delle diverse sfumature che il disturbo può assumere siamo in grado di riconoscere due diverse varianti della patologia:

  • Il narcisismo overt, caratterizzato da una grandiosa considerazione di sé e dalla non-accettazione della critica.
  • Il narcisismo covert, caratterizzato da rifiuto del confronto, bassa autostima, ipersensibilità alla critica e atteggiamenti di recriminazione.

Per colui/colei che vive il rifiuto dei propri comportamenti disfunzionali diviene difficile accedere a una diagnosi e alla terapia: può capitare che, in relazione al narcisismo, si sviluppino problemi minori quali depressione o ansia generalizzata che portano l’individuo a iniziare un percorso psicologico.

Successivamente, in fase diagnostica, si potrà ricorrere all’analisi approfondita dei sintomi per definire un disturbo vero e proprio.

Infine, se è vero che le esperienze infantili sono fattori di importanza cruciale nella determinazione dello sviluppo della personalità del singolo, spesso gli schemi relazionali interiorizzati nell’infanzia portano a comportamenti anomali in età adulta che sono talvolta difficili da carpire.

Forse, allora, è valida una verità clinica e umana proposta dall’approccio psicodinamico per la quale “siamo consciamente confusi e inconsciamente controllati”…