Il genocidio in Ruanda

Introduzione

Dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si compie in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu, per mano dell’esercito e delle  milizie paramilitari. Il movente fondamentale è stato  l’odio razziale verso la minoranza tutsi, che aveva costituito l’élite sociale e culturale del Paese. In soli 100 giorni perdono la vita circa un milione di persone, uccise soprattutto con machete, asce, lance, mazze.

Prima del genocidio

Nel 1924 il Ruanda viene affidato dalla Società delle Nazioni al Belgio. I colonizzatori europei affermano la loro dominazione e il appoggiandosi all’etnia dei tutsi, che ha caratteristiche fisiche più simili agli europei e quindi viene ritenuta più intelligente e con maggiori capacità politiche pertanto adatta ad avere il predominio socio-politico, mentre gli hutu vengono considerati in base alle loro caratteristiche fisiche delle bestie, sfruttati e utilizzati come contadini. Alla fine degli anni Cinquanta i tutsi vogliono ottenere l’indipendenza dal Belgio mentre gli hutu si ribellano alla loro condizione. Pertanto il Belgio decide di sostenere gli hutu e la loro volontà di migliorare la loro condizione di vita. 

Negli anni ’60 il Parmehutu, partito di nuova fondazione per l’affermazione degli hutu, porta all’abolizione della monarchia e alla proclamazione della repubblica da parte di Gregoire Kayibanda, sostenitore hutu, che instaura un regime razzista. Iniziano le persecuzioni contro i tutsi, costretti a cercare rifugio nei Paesi confinanti. 

Nel 1987 la diaspora tutsi dà vita all’Fpr, il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di favorire il ritorno dei profughi tutsi in patria. Il 4 agosto 1993, ci fu il rientro di tutti i profughi tutsi e una sostanziale spartizione del potere con l’Fpr. 

Da lì iniziò il genocidio. 

Genocidio

Il 6 aprile ’94 l’aereo presidenziale viene abbattuto da un missile a Kigali: è l’inizio del genocidio.

Viene diffusa una lista di 1.500 persone da uccidere.

Entrano in azione le milizie paramilitari, che istituiscono barriere stradali: al controllo dei documenti, le persone che hanno l’appartenenza all’etnia tutsi vengono massacrate a colpi di machete. La radio coordina le operazioni, invita i tutsi a presentarsi alle barriere per essere uccisi. I miliziani uccidono con armi da fuoco, ma soprattutto con machete, asce, lance, mazze chiodate. Per i tutsi non esistono luoghi sicuri: anche le chiese vengono violate. 

In aprile gli europei vengono evacuati da Kigali e l’ONU decide di ritirare il contingente di pace, mentre discute se si tratti o meno di genocidio. 

Rimangono solo pochi Caschi Blu, che assistono inermi al massacro.Il 22 giugno i francesi intervengono con un’azione militare.Il 4 luglio Paul Kagame, a capo dell’esercito Fpr, entra a Kigali. 

Il 16 luglio viene dichiarata ufficialmente finita la guerra.

Bilancio fine genocidio

Su una popolazione di 7.300.000 abitanti,di cui l’84% hutu, il 15% tutsi e l’1% twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 vittime in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto). I tutsi sopravvissuti sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e diventate sieropositive, 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali diventati capifamiglia

Félicité Niyitegeka (1934 – 1994): una speranza in mezzo al massacro

Suora laica di origine hutu, durante il genocidio preferì la morte all’abbandono dei 43 tutsi che stava proteggendo.

Quando le squadre di sterminio iniziarono a esplicitare la loro furia genocidaria, Niyitegeka era al Centre Saint-Pierre, dove non si erano mai fatte distinzioni tra hutu e tutsi. Niyitegeka decise di far rimanere nel Centro i partecipanti di origine tutsi, sapendo che farli ritornare a casa significava condannare a morte. Su sua sollecitazione, anche altri tutsi che vivevano nelle vicinanze del centro si unirono a loro. 

Intanto le milizie convergevano su Gisenyi: Félicité si rese conto che il centro non era più un posto sicuro. Così decise di guidare le persone verso il superamento del confine con la Repubblica del Congo, allora Zaire. Del resto il centro era a poco più di un chilometro dalla frontiera.

Felice del successo della spedizione, durante il pomeriggio del 21 aprile Niyitegeka si prodigò per organizzare il viaggio di un altro gruppo di profughi. Fu in quel momento che vide arrivare una banda di miliziani che in maniera disordinata, brandendo pistole, granate e machete, cercarono di entrare nel cortile del Centre Saint-Pierre.

Già prima dell’arrivo delle milizie, Nzungize colonnello dell’esercito hutu aveva implorato sua sorella di lasciare il Centre Saint-Pierre, ma Niyitegeka aveva declinato. “Preferirei morire”, scrisse in una lettera indirizzata al fratello, “che abbandonare le quarantatré persone di cui sono responsabile”.

Félicité insieme alle persone che custodiva fu condotta in un cimitero trasformato in un centro di sterminio. Gli assassini ordinarono a tutti di uscire. Niyitegeka pregò per i suoi compagni di viaggio e invitò loro a non aver paura. Quindi venne uccisa a colpi di arma da fuoco, insieme ai tutsi che aveva protetto fino a quel momento.