Càrpe Dìem

SARA MARANI

Il digital hoarding è un disturbo sottovalutato e spesso non considerato tale. È una delle molteplici conseguenze dello stile di vita che l’essere umano si è costruito. Tornando alla preistoria un momento, agli albori della specie umana, era istintivo accumulare oggetti: erano, infatti, usati come monete. Se un individuo trovava un sasso o una conchiglia particolare, poteva usarla come simbolo del proprio prestigio o ottenere di meglio barattandola.

È chiara, dunque, l’origine di questo comportamento. Da qui, con l’evoluzione, questa abitudine istintiva non si è mai sradicata dal nostro cervello, è solo cambiata. Abbiamo continuato ad accumulare: da tesori naturali, a giocattoli moderni, da accessori a foto. Il digital hoarding è semplicemente una nuova forma di materialismo a cui tutti siamo soggetti, chi più chi meno, a causa dell’importanza che esso aveva in passato.

Per esperienza personale, posso dire che coloro che sono nati e cresciuti senza la possibilità di accumulo digitale tendono a seguire due strade: o non ne sentono il bisogno nemmeno adesso che molti possono permettersi un dispositivo capace di accumulare; o non riescono a farne a meno e cercano di colmare vuoti in quel modo. Coloro che invece sono nati e cresciuti in una realtà in cui tutte le persone intorno a loro possiedono un telefono, un tablet o qualsiasi strumento in grado di tenere in archivio diversi file, sono quelli più ignari del pericolo.

Io faccio parte della seconda categoria ed ho aperto gli occhi di recente. Mi sono resa conto della paura di perdere l’attimo che spesso cerchiamo di contrastare immortalando le più piccole situazioni con una foto o un video. Il problema? Ci si dimentica di vivere. Fatta la foto si crede di poter rivivere il momento ogni volta che si vuole, ma non è così. Un momento non si percepisce solo con gli occhi; un momento è fatto di sensazioni e non solo concrete è fatto di odori, di sapori, di ricordi che affiorano e di presentimenti che suscitano. È fatto del peso che ha l’aria in quell’istante e della luce che c’è. 

Non si può fare una foto a tutto questo e non si può vivere attraverso uno schermo. La foto si può fare a qualcosa che ci servirà, come una frase o un numero; si può fare ad un amico o con un amico; si può fare anche ad un tramonto mozzafiato. Si può fare, ma non si può pensare che basti. Io sono dell’idea che le due azioni vadano affiancate. Poter fare così tanti video, foto o documenti e tenerli tutti in mano è un’opportunità e va bene sfruttarla, ma non si deve essere sovrastati. 

Prima di tutto, non bisogna rimanere delusi se non si riesce a fare la foto che si voleva e poi se anche non la si trova più per qualche motivo non è così grave. Se si è riusciti a vivere il momento, la foto è solo una parziale insoddisfacente rappresentazione di esso. Non si riesce a trovare una foto con un amico? E quindi? Non importa perché il legame con quell’amico lo si è vissuto. Non si trovano quelle foto fatte allo zoo? Si cercano su Internet quelle dell’animale e ci si concentra  su ciò che ha trasmesso vederlo dal vivo. 

Potrei continuare con esempi su esempi, ma direbbero tutti la stessa cosa: la foto non sostituisce il momento e perciò non serve tenerle tutte per paura di dimenticare. Lo stesso discorso si proietta sugli oggetti che hanno un significato per noi. Anche se non ci si vorrebbe mai separare da essi; basta essere stati in grado di aver vissuto il legame con chi lo ha regalato o il momento in cui lo si ha preso per non aver bisogno costantemente di averlo. 

È una salvaguardia, così se dovessimo perdere la foto, la mail o l’oggetto speciale, potremo sempre trovarlo dentro di noi.