Francesca Olivetti, 4D

The circle” è una produzione cinematografica targata Netflix che ci aiuta a immergerci nel complesso rapporto tra la psiche umana e le gerarchie sociali.

Le fasi di delineamento di ceti e ruoli in una comunità vengono perfettamente rappresentate in un inquietante gioco di morte che coinvolge un campione esaustivo e completo della società odierna.

La scena iniziale si apre in una stanza buia, in cui numerose persone si svegliano in piedi a formare un cerchio, al centro del quale si possono osservare diverse frecce disegnate sul pavimento.

Dopo un primo momento di confusione da parte dei giocatori, le regole della sfida diventano chiare: ogni 60 secondi, ognuno di loro è chiamato a votare chi verrà ucciso da una scarica elettrica. Sebbene tentino anche di astnersi dal voto, qualcuno viene ucciso in maniera casuale, nessuno è al sicuro.

Comprendendo la gravità della situazione, uno dei giocatori decide di prendere in mano la situazione e proporre una sorta di selezione delle vittime sulla base di caratteristiche specifiche: questi può essere visto come un leader, colui che, grazie al proprio carisma e allo sfruttamento delle debolezze intrinseche nella massa, è in grado di guidarla a compiere certe scelte, delineando con ognuno dei suoi componenti un rapporto quasi individuale.

Un esempio lampante nella storia è la dittatura militare di Oliver Cromwell (1642-1649), nella quale, facendosi portavoce del malcontento generale, derivato dall’assolutismo di Carlo I, riesce a instaurare un legame diretto con i cittadini inglesi, per poi abusare del proprio potere.

La prima discriminante per scegliere i successivi malcapitati è l’età: tutti coloro sopra i 65 anni sono i primi a doversene andare. Come non richiamare alla mente la dittatura nazista del Novecento, dove chiunque non rappresentasse una componente essenziale per la forza lavoro del campo di concentramento veniva sterminato, allo stesso modo vengono eliminati tutti gli individui considerati un peso o poco meritevoli della vita perché anziani.

Egli riesce, in questo caso, a ottenere il consenso della maggioranza dei giocatori: la porzione adulta e giovane della popolazione.

Una volta uccisi tutti gli anziani, il leader indica una donna, non particolarmente giovane e con una fascia a coprirle il capo: scopriamo presto che ha sofferto di cancro.

Immediatamente, senza pietà, il capo ordina di ucciderla nel turno successivo, ma questa volta non riscontra il consenso del gruppo che, invece, sacrifica lui.

La successiva strategia sembra quella di fare raccontare ad ognuno la propria storia, per meglio indagare i criteri con cui i giocatori sono stati scelti e proseguire nelle votazioni, ma il tempo a disposizione è ristretto e, perciò, il piano fallisce. Da subito emerge quindi la più grande falla di un qualsiasi sistema democratico rappresentativo: non sarà mai possibile avere un’applicazione esaustiva di tutte le idee del popolo, essendo queste troppo numerose e sfaccettate.

Dopo la morte di una donna, che racconta della sua vita, i restanti giocatori scelgono all’unanimità di mantenere l’anonimato, per non rendere la decisione del delitto più difficile. Un chiaro esempio di umanità: il proprio nome rappresenta la propria identità e celarlo significa omologarsi, rimanere un’incognita in una massa che si muove in simbiosi.

Successivamente si crea una disputa per uccidere un uomo messicano immigrato illegalmente negli Stati Uniti; vi sono due schieramenti: chi crede che debba essere la prossima vittima, in quanto considerato criminale, e chi pensa che sia un cittadino con pari diritti rispetto agli altri partecipanti.

Uno di questi ultimi, un ragazzo nero, inizia a lamentarsi del fatto che la maggior parte delle persone della sua etnia siano già state uccise, scatenando un dibattito acceso sull’ingiustizia della selezione. Ancora una volta, c’è chi sostiene che ciò sia solo una casualità e chi lo appoggia, conoscendo le difficoltà dell’appartenere a una minoranza.

Entrambe le dinamiche sottolineano la complessità e diversità del pensiero tra parti diverse della popolazione, in un ambiente nel quale la libertà di espressione è salvaguardata, ma, in ultimo, questa viene ridotta a un semplice voto, senza assunzione di responsabilità.

Le categorie rappresentate sono diverse: un pastore protestante che con la sua fede convince una donna a suicidarsi per rivedere il figlio deceduto, un militare che non vede l’ora di tornare dalla propria famiglia dopo due anni di servizio in Pakistan, un poliziotto, simbolo della giustizia, ecc…

Seguono ulteriori criteri per scegliere i malcapitati: chi ha figli, la propria sessualità, valori e morale, religione professata, carriera, disabilità varie e matrimonio.

La selezione continua fino a che non rimangono in tre: una bambina, una donna incinta e un giovane. Non farò spoiler sul finale, consiglio di andarlo a vedere.

La cosa curiosa del processo decisionale del gruppo è che, sebbene i dialoghi portino sempre a pensare che la prossima vittima sia una specifica, al momento effettivo della votazione la credenza di chi guarda è ribaltata, poiché a morire è qualcun altro.

Il regista compie un ottimo lavoro nel creare aspettative che vengono stravolte e lasciano ogni volta con l’amaro in bocca, complice la tecnica del bluffing, usata dai giocatori più disperati e attaccati alla vita.

L’opera in sé è ricca di simbolismi sulla natura umana e le dinamiche che si instaurano in una società, è la perfetta sintesi delle falle del sistema democratico e della vita come elemento essenziale e intimo dell’esperienza umana.

Lo consiglio a tutti coloro che possano essere interessati agli aspetti psicologici che vengono coinvolti all’affermarsi di una gerarchia o, semplicemente, a chi è alla ricerca di thriller pieni di suspense.

In conclusione, il film rappresenta una società che passa dalla collaborazione e l’aiuto reciproco come tentativo di salvezza alla spietata guerra del più forte per salvare, in ultimo, se stessi, ribadendo ancora una volta senza apparente appello l’egoismo brutale, intrinseco nell’uomo.