“Adoro l’ambivalenza poetica di una cicatrice. Ha due messaggi: qui mi sono fatta male; qui sono guarita”- Louise Madeira
Per diversi anni ho sofferto di autolesionismo, una condizione assolutamente critica che non mi sento di analizzare dal punto di vista clinico, quanto piuttosto da quello umano.
A causa di un mio difetto di razionalizzazione estrema dell’emotività, ho sempre cercato di delineare e dare un nome a quell’irrefrenabile impulso a farmi del male, sia fisicamente che psicologicamente.
Per chi non ha familiarità con questo problema, può sembrare paradossale che un atto che prevede l’infliggersi dolore fisico possa portare ad una qualsiasi forma di soddisfazione, ma è così.
Contrariamente a quanto si possa pensare, non si tratta di masochismo: la linea tra autodistruzione e piacere è labile. In un senso, si tratta di piacere inteso come sollievo, ma dall’altra è una sensazione complessa da spiegare, che non sono in grado di comprendere a pieno, nonostante l’abbia vissuta sulla mia pelle.
Dopo diversi anni di terapia, sono arrivata alla conclusione che sia proprio questa la caratteristica che rende tale “rituale”, in tutte le sue possibili forme, un vizio di cui è difficile sbarazzarsi.
Leggendo “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, per la prima volta, non mi sono sentita inadeguata nella mia sofferenza.
Questa forma di autosabotaggio mi sembrava qualcosa di delirante, incontrollabile, anomalo e, come spesso succede a rimuginare troppo sui propri pensieri in solitudine, mai provato da alcun essere umano prima.
Invece, senza cercarlo, ma lasciandomi trovare, questo libro mi ha capita alla perfezione e, in un certo senso, mi ha levato un grande peso dal petto. Spero che questa incursione nel mio diario personale possa fare sentire meno solo qualcuno che sta convivendo con il mio stesso problema.
La prima volta che mi tagliai non ricordavo nemmeno perché avessi scelto di farlo, ma sapevo per certo che a darmi “l’idea” era stata la storia di una conoscente che si era tagliata sulle cosce perché si sentiva grassa.
Evidentemente, quella storia aveva trovato il favore del mio disagio del tempo: per questo, la prima volta che mi tagliai, scelsi le cosce come tela.
Fui meticolosa: mi trovai chiusa in bagno con le braghe calate fino alle caviglie e, tra le mani, un coltellino svizzero preso a un mercatino, anni prima.
Iniziai a incidere in modo goffo linee dritte, con le mani che tremavano per la paura. Il gesto mi sembrava sbagliato, nei confronti di nessuno in particolare. Sapevo solo che non si doveva fare.
Ero talmente assorta in quel rituale malato che non mi era nemmeno resa conto delle lacrime che iniziavano a rigarmi il viso. Una volta finito, tamponai il sangue che scorreva libero e misi la garza che avevo trovato in uno scaffale sulle ferite.
Mentre mi medicavo, ricordo di aver pensato “Perché non si ferma?”.
Di seguito, tirai su i pantaloni per tenere tutto compatto e assicurarmi che il bendaggio stesse fermo. Non si vedeva nulla: perfetto.
Dopo questo primo avvenimento non avevo avvertito la scarica di adrenalina tipica dell’autolesionismo: questa sensazione si sarebbe insinuata in me lentamente, come un parassita, e avrebbe iniziato a causarmi problemi solo successivamente.
Provavo allora , tutte le volte che capitavo in una situazione di imbarazzo estremo o stress, un impulso, come un formicolio che si espandeva dai polsi ai gomiti: era un invito del mio inconscio a scorticarmi, ad aprirmi le arterie.
Mi bastava il minimo turbamento e subito immaginavo le scene più crude concepibili dalla mente umana. Il soggetto di questi teatrini ero sempre io.
Dopo un po’ il tagliarsi divenne un cattivo vizio, ma come con le cicatrici, non ci fai più caso.
La mia cicatrice più vecchia risale proprio a quel primo episodio: ogni volta che devo vestirmi è lì che mi guarda. La cosa non è reciproca, non ci faccio più caso: d’altra parte è sempre sotto i miei occhi, è scontata. C’è e basta, e non ci diciamo nulla.
Inutile specificare che i miei genitori mi scoprirono quasi subito, a causa della mia stupida noncuranza: indossavo dei pantaloncini corti, dato il clima afoso dell’estate. Mia madre aveva bussato alla porta della mia camera e si era accorta dei graffi che mi ero fatta.
Quei graffi, con gli anni e l’intensificarsi degli episodi, si trasformarono in veri e propri tagli, non solo sulle cosce, ma anche sugli avambracci: mi ero accorta che lì la pelle è più sottile e facile da incidere.
Una sola volta ho pianto per quei segni indelebili sulla pelle, qualche mese dopo il primo episodio: desideravo che sparissero dalla mia vista e, così, mi ripromisi di non farlo mai più.
Non fu così, ma ora sono ormai due anni che non mi taglio più e le cicatrici rimangono il brutto ricordo di un percorso concluso, la fotografia di un malessere che è stato curato.
Il momento della realizzazione arrivò dopo un lungo periodo di riflessioni, sia in terapia che con i miei genitori.
L’aria nella stanza era viziata, contaminata. La mia mente lo era altrettanto, piena di veleno.
D’un tratto, iniziai a notare quel meccanismo per il quale un grande peso mi si adagiava sul petto e, non appena arrivassi ad esprimere il mio malessere ad alta voce con qualcuno di caro, questo si liberasse, gradualmente.
Le parole che uscivano dalla mia bocca erano come una catena che lentamente si sgroviglia, cadendo con un tonfo metallico a terra, per lasciare spazio ai polmoni costretti nel torace.
L’irrequietezza si placava e non vi era più bisogno di tutta quella violenza e quell’autodistruzione: è così che ho capito l’importanza del chiedere aiuto.
Ben lungi dall’essere un semplice lamento, il parlarne con qualcuno di fidato ha rappresentato parte fondamentale del mio percorso di guarigione e anche motivo di avvicinamento ai miei genitori, inevitabilmente disorientati dalla situazione.
Dopo un momento di iniziale imbarazzo e vergogna, ogni cosa ha trovato il suo spazio e la sua rilevanza: ho capito che nessuna preoccupazione è “troppo stupida” e che ogni pensiero, benché innocuo, si possa accumulare e portare una persona a scoppiare con violenza.
Il mio consiglio è quello di sforzarsi lentamente, giorno per giorno, di verbalizzare le proprie emozioni e imparare a comunicarle: prima su carta, se non ci si sente pronti (la carta è più paziente dell’uomo), poi a se stessi, nell’intimità della propria stanza e, infine, ai propri cari.
Smettiamo di rivolgerci a noi stessi come a una bestia tenuta in cattività e iniziamo a curare il nostro bambino interiore, che ha bisogno del nostro supporto e amore incondizionato, a tutte le età.