Francesca Olivetti
È il 20 di novembre, mentre tutto il mondo parla di Giulia Cecchettin, un’altra donna viene uccisa, strangolata dall’ex fidanzato.
“È stato il vostro bravo ragazzo”: questa frase della scrittrice Valeria Fonte viene citata da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in riferimento al ventiduenne Filippo Turetta.
Allo stesso modo, nella sua intervista, Elena lo definisce “membro sano della società patriarcale”, alludendo ad un retaggio culturale pregno della cultura della violenza maschile sulle donne.
Con cultura della violenza si intende una cultura occidentale nella quale gli atti di violenza di genere vengono minimizzati, normalizzati o, talvolta, incoraggiati dai media. Seppur non manifesti, possiamo notare gli effetti di questa mentalità anche nella vita di tutti i giorni: la paura intrinseca nel genere femminile di essere molestate non appena cala il buio o la normalizzazione di un vestiario “consono” piuttosto di uno “da poco di buono”.
Secondo la famiglia dell’ex fidanzato della vittima, il comportamento del figlio sarebbe stato totalmente inaspettato: questa affermazione ci aiuta a comprendere quanto tutto l’insieme di gesti e segnali che culminano nel femminicidio vengano normalizzati: gelosia eccessiva, controllo maniacale del cellulare del partner, stalking, possesso,ecc…
La minimizzazione dei campanelli di allarme della violenza è tale da rendere molte donne insensibili alle ingiustizie ricevute quotidianamente nel rapporto di coppia e può portare un orrore, come quello vissuto da Giulia, a divenire normalità.
È fondamentale tenere presente che il femminicidio rappresenta solo la punta dell’iceberg, il climax di una serie di complesse dinamiche che concernono il piano dell’affettività.
E i nostri “bravi ragazzi” cosa pensano a riguardo? Nelle discussioni che si sono accese in corrispondenza del fatto di cronaca, troppo spesso vediamo donne esprimere la propria opinione e solo raramente uomini che si sbilanciano. Si pone così il problema dell’empatia, pilastro fondamentale nel confronto sulle problematiche sociali che viene a mancare nel nostro caso.
È proprio da questo fenomeno che capiamo quanto il problema della gestione dell’affettività sia radicato nella società.
L’affettività, più che la sessualità, rappresenta una sfera emotiva su cui le famiglie in primis devono educare i ragazzi, senza distinzione di genere, fin dalla nascita.
Sono stati proposti diversi piani incentrati sull’educazione e la lotta alla violenza di genere, ma come possiamo aspettarci che questi possano realmente fare la differenza se non vi è una consapevolezza che parte da dentro?
A tal proposito sorge un ulteriore dibattito: a chi dobbiamo attribuire la colpa di tutto ciò? È la società oppure il singolo che deve agire per apportare miglioramenti concreti alla questione?
In quanto società, non possiamo aspettarci un cambiamento istantaneo, ma ci sono alcuni piccoli passi che le vittime stesse possono fare per prevenire la violenza e tutelarsi. Con questo non si vuole sottintendere che sia un loro dovere farlo, quanto piuttosto un diritto che deve essere garantito.
Non viene adeguatamente ribadita l’importanza di chiedere aiuto: per quanto difficile, è necessario aprire un dialogo con l’esterno per porre fine a una catena di silenzi che sfocia nella violenza.
Allo stesso modo, però, c’è bisogno di una presa di coscienza di noi tutti e di costanza nella lotta alla violenza di genere per permettere risultati effettivi e duraturi nel tempo. Il difetto più significativo di movimenti quali quello preso in considerazione è proprio la discontinuità nell’affrontare attivamente e con intenzione il problema.
Il fiore che è l’attivismo non può sbocciare da solo nell’indifferenza: deve essere coltivato giorno per giorno, non bisogna annaffiarlo solamente quando ce ne si ricorda.
Giulia non sarà l’ultima, né tanto meno l’unica. Giulia deve essere, per ognuno, un grido di consapevolezza.