Giacomo Tamagnini
Diciannove anni separano le prime edizioni di due pilastri letterari del primo novecento . Da una parte troviamo Luigi Pirandello che, nel 1904, ci propone uno squarcio della vita di Mattia Pascal o, cambiando prospettiva, le vicende vissute da Adriano Meis, dalla nascita alla morte. Dall’altra è posto invece uno dei romanzi che Hector Schmitz pubblica con il più conosciuto pseudonimo di “Italo Svevo”. Risale infatti al 1923 la prima pubblicazione de “La coscienza di Zeno”. Le due opere racchiudono al proprio interno le idee, la poetica e la filosofia di chi le ha scritte; indagandone quindi ogni anfratto, si indagano direttamente gli autori: la coppia di decenni che separa i due romanzi marca sensibilmente il contesto storico-culturale in cui vengono scritti. La grande guerra che colma un silenzio importante tra le due date influisce notevolmente sulla mentalità delle persone, specialmente in un paese che rimane sconfitto nella propria vittoria. I campi semantici che vengono sondati dagli autori rimangono sufficientemente distanti dal contesto di guerra per non esserne eccessivamente influenzati ma, nonostante ciò, l’ambiente di contorno alle vicende presenta tratti caratteristici di epoche differenti.
La figura dell’inetto sveviano può essere ricondotta ad una stereotipata mentalità italiana post-guerra: l’immagine del “buono a nulla” è proprio quella che emerge dalla disfatta di Caporetto, spazialmente prossima ai luoghi di residenza dell’autore. È l’immagine dell’inetto che viene attaccata dal generale Cadorna, con funamboliche giustificazioni. È l’immagine dell’inetto ad alimentare il consenso verso i movimenti estremisti che fanno della “rieducazione” del popolo italiano uno strumento politico. È l’immagine dell’inetto che diverrà filo di un tessuto di eventi, scelte e concessioni, filato da un telaio di violenze chiamato fascismo. Dall’altra parte troviamo un ambiente diverso, che restituisce un’idea di libertà quantomeno apparente. È l’ambiente della belle époque, l’immagine di un mondo aristocratico-borghese nella sue temporanea ascesa decadente. Ne troviamo il riflesso tra le prime pagine del romanzo di Pirandello: nella situazione economica del protagonista che si degrada in silenzio durante la sua giovinezza, nel lusso inconsapevole di Montecarlo e nell’imprevedibilità di una vita che si diverte a giocare perfino con la morte. Troviamo quell’ambiente nell’individualità dei personaggi che fanno emergere l’ombra di un’epoca che riesuma i tratti di un antropocentrismo impolverato, destinato a ricoprire un ruolo sempre più di spicco nella mentalità collettiva del novecento.
Ma l’ambiente è solo di contorno ad un personaggio che pare fluttuarci sopra, come una buffa immagine sul collage di un bambino. E quel personaggio, che per semplicità chiamerò “Mattia Pascal”, presenta certi tratti comuni a quelli di Zeno Cosini. La distanza tra le epoche è colmata dalle somiglianze di due protagonisti che vivono in balia degli eventi, nell’illusione di una scelta che mai diviene più di un’ombra.
Da un lato Mattia Pascal vive qualcosa di riconducibile ad un’autodeterminazione, una grande e difficile decisione, che rimane però illusoria poiché forzata. Sarà tale forzatura a ricondurlo sui propri passi, fino a frantumare quel frammento di libertà che per anni aveva tenuto tra le mani, senza avvedersi del fatto che non era nulla di più che un’immagine fugace. Dall’altro lato troviamo uno Zeno che la stessa illusione la cavalca. Le stratificazioni dell’io proposte da Freud mostrano la sottile linea che separa consapevolezza e inconsapevolezza, che per tutto il romanzo rimangono indistinguibili l’una dall’altra all’interno di un personaggio che dà l’impressione di pensare ciò che gli conviene. Zeno rimane quindi legato a delle scelte che derivano da quelle degli altri, in un ambiente che decide per lui senza che se ne renda conto, richiamando l’immagine del Don Giovanni kierkegaardiano che sceglie di non scegliere. La differenza tra i protagonisti dei due romanzi è quindi che in un primo caso l’impossibilità di scelta matura in un monito, in una consapevolezza, nel secondo caso tale impossibilità rimane invece lontana, poiché l’inettitudine impedisce a Zeno di fare il passo troppo lungo che ha permesso a Mattia Pascal di ricavarne una morale; il protagonista rimane quindi ancorato ad un’illusione, figlia dell’infantile inconsapevolezza dell’inetto. In entrambi i casi l’individuo si vede costretto a fronteggiare la crisi del proprio io, da una parte in maniera consapevole, dall’altra non del tutto, se non attraverso una controversa malattia fisica che fluttua assieme alla condizione psicologica del protagonista. Ciò che accomuna i due personaggi è che, nonostante le differenze caratteriali e comportamentali, sarà sempre l’ambiente a definire vicende e avvenimenti, scelte, ragionamenti e situazioni. L’ambiente nel suo complesso definisce ciò che accade. Ma non solo: l’ambiente definisce le persone, riducendo l’autodeterminazione ad un miraggio. Ed ecco che si apre una pagina ampissima di ragionamento filosofico e letterario, che ci conduce al determinismo di Zola, a Kipling e al suo “Libro della Giungla”, a Platone con il mito della caverna, ma anche al Macbeth shakespeariano che, assieme alla moglie, giunge ad un radicale cambio di personalità di pari passo con il mutare della sua condizione sociale. È proprio Macbeth che, all’interno del soliloquio successivo alla morte della consorte, ci concede la celebre frase: “Life is a tale, told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”. (“La vita è una storia, raccontata da uno sciocco, piena di furia e rumore, priva di significato”). L’aforisma richiama in maniera efficace un concetto di vita affine all’idea dell’illusione celata dietro le scelte individuali. L’uomo viene ridotto a uno sciocco narratore esterno. Un narratore che si limita a prestare i propri occhi a delle vicende che possono solo essere raccontate, e mai determinate da scelte e volontà. La vita diviene una storia, gli avvenimenti furia e rumore. Il significato e la morale umana vengono rimossi da una visione meccanicistica di mondo e natura che priva l’uomo di ciò che più di ogni cosa lo rende umano. Quella di Macbeth è la visione di una persona che ha estremizzato una consapevolezza. Si è liberato di quei vincoli di illusione, arrivando alla più pura essenza umana, priva delle vesti “innaturali” proprie di chi è caduto nell’invisibile trappola che la vita tende.
È la follia.
La condizione umana che svincola le persone dai doveri morali e formali, dai freni, dalle inibizioni forzate. La condizione che scalza ogni maschera, che unifica le diverse sfaccettature dell’individuo. È la ricetta della liberazione data da una concezione della natura di uomo che prende sempre più piede nella mentalità collettiva intellettuale. È la soluzione che parte da Poe, passa da Baudelaire e giunge fino a Lovecraft e Pirandello. Il culto della malattia, della follia in quanto condizione elitaria per raccontare la realtà è ciò che emerge, per esempio, dalla visione decadente di Baudelaire. Pirandello conferisce invece al folle il merito di essere in grado di vedere e mostrare se stesso privo di veli: non si tratta di mondo esterno, ma di mondo interno. La condizione elitaria risiede in questo caso nel fatto che è proprio la pazzia a scalzare ogni maschera dal viso dell’individuo, permettendogli di vivere in quanto tale e non come frutto dell’ambiente. Il folle è il solo, grande privilegiato che dispone dell’autodeterminazione. Mattia Pascal e Zeno non giungono mai ad un’estremizzazione tale da arrivare alla liberazione dai vincoli sociali attraverso la follia, come Macbeth, e nemmeno ad una piena consapevolezza dei concetti che gli autori volevano esprimere attraverso di loro, come accade invece al prigioniero nel mito della caverna platonica. Mattia Pascal, per natura più intraprendente, si avvicina a tale consapevolezza attraverso un percorso empirico che gli permette di comprendere ciò che l’uomo assennato non può fare, pena la crisi dell’io. Zeno rimane invece totalmente inconsapevole della propria condizione che di quella stessa inconsapevolezza si nutre. Prova di questo è il fatto che Mattia Pascal sceglie volontariamente di raccontare la propria storia, per lasciare un monito scritto a chi volesse intraprendere “scelte” come le sue; Zeno viene invece convinto a farlo da una terza parte, senza la quale la sua testimonianza in quanto inetto sarebbe andata perduta. La costante rimane la medesima: l’ambiente in cui ogni persona è immersa risulta determinante per il raggiungimento di valori, idee e consapevolezze, fino ad influenzarne le scelte in maniera inconsapevole. La civiltà perde di significato, così come l’individuo che si presenta in quanto tassello di un mondo la cui visione cinicamente meccanicistica dilaga attraverso le idee di autori come Svevo e Pirandello, e che preclude la pura libertà individuale a chi dallo stesso mondo è escluso.