Il principio era il verso
PROF.SSA MARGIOTTA
«Non scrivete subito poesie d’amore, che sono le più difficili! (…) Scrivetele su un altro argomento, che ne so… sul mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo. Non esiste una cosa più poetica di un’altra. La poesia non è fuori, è dentro. Cos’è la poesia? Non chiedermelo più, guardati allo specchio, la poesia sei tu» esclamava un istrionico Roberto Benigni in veste di prof nell’acclamato film La tigre e la neve. Verrebbe da domandarsi se effettivamente la poesia sia onnipresente, o meglio se tutto sia potenzialmente poetico, come ha mostrato in maniera sublime W. Szymborska, premio Nobel per la letteratura del 1996. Per lei qualsiasi cosa – una cipolla, una chiave, una pozzanghera, persino l’azione di scrivere un curriculum o quella di sbagliare numero di telefono – merita una poesia. «La poesia – ma cos’è mai la poesia? Più d’una risposta incerta è stata già data in proposito. Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come all’ancora d’un corrimano» scrive in una sua celebre composizione. Quel sapere di non sapere – socratica sapienza! – la induce a cercare, forse a trovare poesia in tutto, forse a generare poesia ex nihilo, poesia che non era prima che lei la mettesse su carta. Ma il punto è che il suo sguardo sulle cose diviene prassi ordinaria di attenzione, lezione preziosa per noi spesso troppo distratti, vite frenetiche che corrono senza meta e si perdono il gusto del viaggio. Se solo sapessimo come lei adottare quell’atteggiamento di meraviglia che è proprio dei bambini – quando guardano una farfalla, un treno, un cucchiaio, un passante con la barba – e che poi inevitabilmente si perde nella caligine del “già visto”, nella nebulosa dei “già sentito”. I poeti hanno questa virtù: ci estraggono per un po’ dal nostro annebbiamento, mostrandoci che ciò che consideriamo ovvio e ordinario, in realtà è straordinario: un vero «miracolo», o forse dovrei dire una fiera dei miracoli per citare un’altra poesia della scrittrice polacca. Potrebbe non esserci, eppure c’è. Anche noi potremmo non esserci e invece siamo qui, unici e irripetibili, proprio come creazioni poetiche. Ricordo con affetto una lezione in una classe del tecnico agrario, durante la quale partendo da Pascal chiesi, con fare un po’ accorato e teatrale: “Ragazzi, noi siamo qui” e toccai con la punta della matita la digital board. Poi delimitai il puntino in un cerchio e dissi “questa è la nostra galassia” e poi attorno al primo continuai a disegnare altri cerchi irregolari sulla lavagna. “Siamo solo un puntino sperduto in un immenso ed elastico cosmo costellato di centinaia di miliardi di galassie, ciascuna di esse con migliaia di miliardi di miliardi di pianeti e di stelle. Chi siamo noi, se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e particelle elementari? (cf. Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni fisica) Scriveva Pascal: Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e cvedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché io sia qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo? E soprattutto che senso hanno le nostre vite? Quale valore hanno, secondo voi?” Dopo qualche attimo di silenzio un alunno mi guarda con aria di sfida e mi chiede: “Prof, quando è morto Pascal?” E subito dopo avergli risposto: “Ecco, eppure ne stiamo ancora parlando.” Rimango un attimo a guadarlo sorridendo, orgogliosa come una madre per la felice risposta. Dopodiché gli domando: “E tutti quelli che non sono Pascal, che non faranno mai nulla di memorabile nella vita?”. E lui ancora più deciso: “Prof, anche solo un piccolo gesto per qualcuno può significare tanto e può dare il senso ad una vita intera”. Così, colpita e affondata, mi ritrovo a pensare ad un’altra aula scolastica, nella banalità feconda del quotidiano, in cui un altro docente faceva risuonare le immortali parole di Whitman: “Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Citando W. Whitman: Oh me, oh vita! Domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli, città gremite di stolti… Cosa c’è di buono in tutto questo, oh me, oh vita Risposta: Che tu sei qui – che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso. Che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso… Quale sarà il tuo verso?”.